Mi chiamo Josef e ho
32 anni. Vivo in un villaggio nel cuore dell’Africa con mia moglie Janila e i
nostri 10 figli. Viviamo in una casettina in cui gli unici arredi sono un
tavolo e qualche sedia. Dormiamo per terra in una stanza troppo piccola per 12
persone. Io non ho un lavoro, coltivo un pezzo di terra insieme ai miei figli
più grandi, loro non vanno a scuola,
nessuno di noi in famiglia sa leggere e scrivere. La metà del raccolto la vendo
per poter guadagnare un po’ di denaro. Ma quel denaro non basta a sfamare 12
bocche. Quando siamo fortunati riusciamo a fare un pasto al giorno, ma la
maggior parte delle volte passano diversi giorni prima di poter mangiare.
Una volta alla
settimana Janila e i bambini più piccoli vanno a prendere l’acqua. Qui bisogna
percorrere 5 ore di cammino per averla. Janila si alza all’alba e percorre 5
ore di strada a piedi nudi con due bambini in braccio e un’anfora sulla testa. Dopo
5 ore interminabili arriva al pozzo, ma l’attesa non finisce qua: deve
aspettare ancora un paio d’ore prima che la fila di donne e bambini assetati
davanti a lei svanisca. Al suo turno può bere qualche goccia d’acqua, dopodiché
riempie l’anfora e riprende il cammino. L’acqua che Janila porta a casa deve
durare una settimana, per questo ci è concesso solo qualche sorso al giorno.
Da qualche tempo io e
Janila stiamo pensando di trasferirci,magari in Europa. Forse lì non sentiremo più i pianti dei nostri
bambini perché hanno fame e sete. Forse non sentiremo più le nostre pance
brontolare. Forse Janila non avrà più i tagli sotto i piedi. Forse mangeremo
tutti i giorni. Forse dormiremo su letti veri.
Decidiamo
di andare in Italia, prima andrò io, poi, se troverò un lavoro, verrà anche il
resto della mia famiglia.
Il giorno della mia partenza salgo su una
barca insieme a tantissime persone che come me lasciano la propria terra per
trovare lavoro. Il viaggio della speranza dura parecchi giorni. Siamo in troppi
su un’imbarcazione troppo piccola, fatico a respirare. Al mio arrivo mi sento
disorientato.
Cammino per le vie
della città osservando la vita frenetica della gente. Intorno a me ci sono case
vere, palazzi; in questa città ci sono
molti rumori, ma non sento nessuno
lamentarsi perché non mangia o non beve da giorni, non vedo nessuno con anfore
piene d’acqua sulla testa. Ad ogni angolo c’è una fontanella, basta schiacciare
un pulsante e l’acqua scorre, ma la cosa che mi stupisce è che non ci sono file
davanti alle fontanelle. Noto anche che tutti hanno le scarpe ai piedi. Giro l’angolo
e quasi svengo. Capisco che in questo paese di acqua ne hanno così tanta che la
sprecano nelle loro fontane. La gente passa indifferente perché forse non si
rende conto del tesoro che possiede: l’acqua.
Questo mi sembra un
paese dove si vive bene. Solo a qualche angolo della città ci sono persone che
chiedono l’elemosina, ma il resto sembra che abbia un lavoro.
I primi
giorni sono duri, dormo per strada e non
ho niente con cui sfamarmi. Dopo qualche settimana, però, finalmente, trovo un
posto di lavoro. Mi hanno assunto come netturbino. Non guadagno molto, ma per incominciare
va bene. Dopo qualche tempo riesco anche a trovare una casa in affitto, è un po’
piccola, ma ci staremo.
Sono 4 mesi che sono in Italia, oramai è Novembre e il lavoro è più intenso.
Un giorno, mentre sono intento a pulire un marciapiede da
uno spesso strato di foglie, mi passano accanto una signora con il figlio: “Vedi
Gianmarco cosa succede a non studiare! Vai a pulire i marciapiedi! Continua a
studiare e diventerai un medico o un avvocato!”
“Ma mamma come faccio a diventare un medico se ho paura del sangue!” “Ohh
smettila Gianmarco di fare la femminuccia!”
È passato quasi un anno e finalmente anche la
mia famiglia mi raggiunge qui in Italia. Ora va molto meglio, mangiamo ogni
giorno e mia moglie non deve fare più 5 ore di cammino; i miei figli non
lavorano più, ma vanno a scuola. Questo mi rende felice, sapere che fra qualche
anno non dovranno faticar quanto ho faticato io per trovare un posto di lavoro.
Jera ha 13 anni e va
in terza media; quest’anno deve scegliere la scuola superiore. Lei è più
svantaggiata rispetto ai suoi compagni, perché sono solo due anni che legge e
che scrive, quindi non può ancora sapere quali sono le materie in cui è più
portata. Nel programma per l’orientamento è previsto anche un incontro con il
maestro del lavoro. Appena tornata da scuola Jera mi ha raccontato tutto quello
che questa persona ha detto e io ho scoperto tantei cose nuove. Ho scoperto che
ogni anno il 1 maggio vengono consegnate 1000 stelle al merito del lavoro.
Il maestro del lavoro
ha chiesto agli alunni che cos’era per loro il lavoro e ognuno ha detto la
propria opinione: orgoglio, pazienza, sacrificio, gioia, noia, fatica, soddisfazione,
dispiacere. Mentre mia figlia elencava queste emozioni, io vivevo il momento in
cui le avevo provate. Avevo dovuto lasciare la mia famiglia per un anno, avevo
dovuto aspettare che trovassi un posto di lavoro dormendo per strada, ho
provato una gioia immensa quando sono stato assunto, sono rimasto dispiaciuto
quando quella signora si è rivolta al figlio indicandomi, ho provato
soddisfazione quando vedevo i miei figli sorridere.
Ho guardato mia figlia
negli occhi e le ho detto: “Jera, il lavoro è dignità, per diventare medico
bisogna studiare di più che per diventare netturbino, ma un medico ha la stessa
dignità di un netturbino, né di più né di meno.”
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