14 apr 2010

Appuntamento al parco (seconda parte)

Innanzitutto scusate per il ritardo nell'aggiornamento del blog. Lo so che parecchi di voi erano in fibrillazione per la continuazione del racconto, ma contavo di pubblicarlo insieme al mio ultimo lavoro...purtroppo non sono riuscita a terminarlo, ma non posso farvi attendere ancora, anche perche' ho gia' ricevuto una tiratina di orecchi da Ettore Di Domenico...che ha tutte le ragioni di questo mondo!!!
Conto, pero', nel giro di una settimana di pubblicare il mio lavoro, insieme alla terza e ultima parte del racconto!!!!
Buona lettura, quindi e....mi raccomando, lasciate un commento....e' sempre un piacere leggervi!!!
P.S.: per facilitare la lettura, soprattutto per quelli che leggono per la prima volta il mio blog, ho riportato anche la prima parte, mentre la seconda e' scritta in grassetto!!

15 gennaio
Ho freddo, mi pizzicano le guance e le orecchie. Tremo e cammino rigido, il collo insaccato tra le spalle. E’ buio e devo stare attento a non scivolare su quel po’ di neve rimasta, che è ghiacciata e scricchiola sotto i piedi.
Katia deve essere già arrivata, lei è sempre così puntuale. Anche questa volta dovrà aspettarmi. Eppure non è stato facile convincerla.
Aveva nuovamente cambiato idea e non voleva più venire. Continuava a trovare buone ragioni per rimandare. Rivedo il tremito del suo labbro e sento la sua paura infiltrarsi nelle ossa, occhi spalancati e voce che non sale. Affretto il passo.
Ci sono queste notizie sul mostro che potrebbe tornare a colpire. C’è poco da scherzare. mi aveva detto fissandomi. Aveva spento una mia risata cretina e io avevo dovuto dirle scusa, hai ragione.
Una donna viene uccisa senza alcun apparante motivo più o meno ogni sette mesi, l’ultima è stata lo scorso giugno, a trenta chilometri da qui. I giornali locali hanno parlato di un serial killer freddo, che non si abbandona a brutalità gratuite, strani riti o atti di feticismo. Si limita a uccidere con regolarità ogni sette mesi, con armi differenti, ma sempre con sette colpi.
Vabbé se proprio ci tieni, facciamola questa pazzia, vediamoci a mezzanotte per queste foto del cavolo. Tu non sei normale. Tu vuoi che prima o poi succeda qualcosa, che ci scoprano, che qualcuno ci lasci la testa. Ma io non ti seguo all’inferno. Stai bene attento, Michele perché c’è una riga da non superare e tu ci sei pericolosamente vicino. Se la superi, ti ammazzo. Non mi rovinerò per te.
Bastava lasciarla parlare, piangere qualche volta, magari urlare. Doveva liberarsi delle pesanti, eleganti catene di architetto e di mamma in carriera prima di trasformarsi in una vera selvaggia.
Deve essere venerdì, mi aveva detto. Giorgio parte per un convegno e i bambini saranno da mia sorella. Di neve nel parco ce ne sarà ancora in abbondanza. Venerdì va benissimo, le ho risposto. Baciandomi, mi aveva colpito il petto con affetto e complicità.
L’idea delle foto era stata sua. Aveva visto le immagini che avevo scattato tre anni fa, la fontana carica di neve, la luce gialla del lampione, un alone di nebbia, il profilo dei tetti imbiancati e un denso, avvolgente silenzio. Sei magico, sei riuscito a fotografare il silenzio, mi devi insegnare.
Stanotte ci siamo entrati, nel silenzio. Lo abbiamo profanato con l’angoscia che ci morde lo stomaco e con tutti i pensieri che ci scoppiano in testa. Il nostro cuore in tumulto infrange il silenzio di questo luogo molto più dei nostri passi soffocati dalla neve.
Il cielo è stellato, ma noi ci portiamo dentro questo freddo viscido e osceno che ci invade e penetra in ogni fibra del nostro corpo.
La vedo. E’ vicino alla panchina, a battere i denti con le braccia conserte. Mi devo preparare a una delle sue sfuriate, la normale razione di carta vetrata che pago per assaggiare il miele dei suoi baci e il burro delle sue curve.
Anche lei mi ha visto, mi viene incontro senza un cenno di saluto. Cammina a testa bassa, mentre piccoli scatti nervosi le scuotono le spalle.
E’ tutto pronto, ci siamo noi due, la neve, il buio e la luna. In fondo, ho ritardato di soli sette minuti dopo la mezzanotte.
La lascio avvicinare fino a quando arriva a tre passi da me, poi mi decido a sparare.
Il primo colpo la colpisce all’addome, poi scarico altri due colpi su quella faccia che per un istante mi guarda pallida e incredula. Tre colpi ancora per sfogare la tensione e vederla cadere bocconi sulla neve, ormai puro corpo inanimato che non mi appartiene. Mi avvicino e le sparo ancora una volta mirando alla testa, calmo, per mettere un punto definitivo a questa storia

22 gennaio – mattino
Ho le mani macchiate.
Questo inchiostro nero è difficile da lavare. Ma non so rinunciare al piacere di ascoltare il pennino che graffia la carta morbida. Non conosco altro modo di scrivere.
Mi preparo un caffè, mi rilasso e mi preparo a rileggere.
“Egregio Procuratore,
lei mi fa pena.
L’ho vista ieri sera al telegiornale, ho ascoltato i suoi appelli alla cittadinanza, ho notato lo studiato riserbo con il quale respinge l’assalto dei cronisti, la sicurezza che ostenta verso le autorità.
Lei sfoggia una sicumera buona per confondere le idee dei semplici, ma in realtà non sa letteralmente dove sbattere la testa. Lei inizia ad avere paura.
Io so riconoscere la paura. Io convivo da anni con la paura, non posso farne a meno, essa fa parte di me e se alzo la testa e la cerco, mi sembra di vedermi allo specchio.
Quando la osservo, affondato in uno stuolo di microfoni, sono in grado di riconoscere la stessa paura disperata di chi brancola nel buio e cerca affannosamente una via di uscita.
Sette omicidi ogni sette mesi fanno quattro anni signor Procuratore.
Durante tutto questo tempo i giornali hanno riempito pagine di cronache, interviste e fotografie. I telegiornali e i talk show hanno ospitato criminologi, magistrati in pensione e professionisti della chiacchiera.
Da una settimana negli uffici e nei bar non si parla che del delitto della donna nel parco. Soubrette, calciatori e “reality show” sono passati per qualche giorno in secondo piano.
Lei solo continua a tacere, ad esibire una improbabile laboriosità, a invitare alla pazienza e al rispetto dei tempi della giustizia. «Non stiamo cercando un colpevole da dare in pasto all’opinione pubblica, stiamo cercando il colpevole e questa volta siamo sulla buona strada, non fatemi dire altro, vi prego».
Il colpevole di cosa, signor magistrato? Dell’ultimo delitto, del primo, di tutti e sette?
Lei ha interrogato centinaia di persone, ne ha sospettate a decine, qualcuna l’ha anche arrestata, poi rilasciata e arrestata nuovamente. E sta ancora inseguendo l’idea di dare un volto ad un misterioso assassino seriale, prevedibile parto della psicosi collettiva che lei ha finora assecondato con cocciuta mancanza di immaginazione.
Nella sua mente ordinata non c’è spazio per il caso, per l’improvvisazione, per quello scarto del destino, quell’attimo che può cambiare il corso di una vita, e anche distruggerla.
La cronometrica regolarità degli omicidi e il numero di colpi inflitto alle vittime sono sufficienti a convincerla dell’esistenza di un disegno prestabilito, di un piano che lei sta cercando di decifrare, senza essere finora riuscito a mettere insieme nemmeno due tessere di questo complicato puzzle.
Forse lei dovrebbe studiare meno le carte processuali e dedicare più tempo al cuore degli uomini. Comprenderebbe con quanta facilità il suo determinismo vuoto ed astratto sia destinato ad essere sconfitto dai capricci del destino e soprattutto dall’esercizio dell’umana libertà.

Chi le scrive è un assassino, signor magistrato. Ho ucciso con premeditazione e senza piani prestabiliti, senza metodo, né ordine e in piena coscienza. Libertà e casualità si sono presi sempre il maggiore spazio della mia vita.
E’ per amore di libertà che ho ucciso ed è da uomo libero che ora confesso il mio crimine, consapevole che trascorrerò in carcere il resto dei miei giorni. Infatti oggi desidero unicamente la liberazione dalla mia colpa.
Ci sono situazioni che creano catene e soffocano la tua libertà senza che tu te ne renda nemmeno conto.
Tu stesso puoi essere il principale artefice della tua schiavitù, e allora il problema diventa liberarti da te stesso. Se la sorte ti è propizia, puoi riuscirci. Ma questa è la prova più ardua, perché non c’è muro più difficile da sfondare di quello dei propri limiti e delle proprie debolezze.
A me è sempre riuscito penoso abbandonare una donna. Gli amori finiscono, ma i legami continuano e reciderli è faticoso, deprimente. Donne che prima ti ignorano per principio e ti rifiutano per abitudine, poi ti accolgono per gioco e per noia, ti cercano per puntiglio e curiosità, ti imbrigliano nella loro rete riuscendo a infliggerti ogni possibile senso di colpa, finché ti accorgi di essere invischiato in una palude dove il pianto e il riso, l’odio e l’amore, la felicità e l’infelicità si mescolano in un’unica fanghiglia che ricopre il tuo corpo e ti fa sprofondare ogni giorno un po’ più in basso.
Signor Procuratore, confesso che io ho ucciso. Non sette volte, ma più di una. E quando si è iniziato a parlare di mostro, di maniaco, di serial killer, ho gioito di questa fortuna insperata, ho ringraziato la sorte ancora una volta amica e ho iniziato ad aver fede nell’onnipotenza dei miei mezzi. Niente ti rende più invincibile della salvezza raggiunta quando stai per perderti irreparabilmente.
Ma ora basta, il giochino sta diventando ripetitivo. Vede, se io fossi quel serial killer che lei sta inutilmente cercando da anni, adesso io mi divertirei a giocare al gatto e al topo. Invece la coazione a ripetere lo stesso schema mi fa orrore, perché nega l’unica cosa che fondamentalmente rende lei e me diversi dal gatto e dal topo. Questa cosa si chiama libero arbitrio.
Lei non ha capito nulla, ma ha avuto fortuna. Anche io ho avuto fortuna, ma ciò non mi ha reso felice.
Michele Zanetti.”

(
continua)

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